domenica 28 gennaio 2007

Andy Warhol

L’arte della ripetizione *

All’età di otto anni Andy era un bel bambino dall’aria paffutella, la fronte alta, i capelli biondi separati da un lato, gli occhi lunghi, scuri, penetranti, ironici.

Sua madre, una donna dal seno provocante, gli occhi e le labbra molto accentuate dal trucco, i capelli biondi arricciati dai bigodini, se lo portava dietro dovunque, anche quando incontrava uomini sconosciuti o quando faceva le pulizie in un grande magazzino.

Andy l’adorava, la seguiva ubbidiente, non protestava quando rimaneva, senza sapere perché, delle ore seduto su una sedia ad aspettare che sua madre uscisse da una stanza, sempre diversa, con un signore, sempre diverso. Faceva l’infermiera, gli aveva detto, e andava a curare i pazienti in casa. Andy aspettava, dopo, una macchinina in premio, o un album per disegnare o un pacchetto di quelle cicche alla fragola che tanto gli piacevano. Quando la mamma faceva le pulizie nel più grande magazzino di Pittsburgh, Andy si divertiva perché girava per gli scaffali pieni di barattoli, sacchetti, reggiseni, dolci. Qualche volta li toccava anche, senza farli cadere però, come raccomandava la mamma.

«Andy dove sei?» La voce superava il ronzio dell’aspirapolvere.

«Dove sono i rossetti.»

«Non toccare, altrimenti non posso più portarti. Non vuoi dispiacermi, vero?»

«No, mamma, no.»

E così, un giorno dopo l’altro, nelle ore fuori dalla scuola.

A scuola Andy aveva un amichetto dagli occhi azzurrissimi: Glenn. Era la prima cosa che Andy aveva notato. Glenn aveva un anno più di lui, era più alto e robusto e molto gentile. Quando Andy gli regalava i suoi disegni - perché Andy sapeva disegnare molto bene - li collezionava in una cartellina rossa che teneva sotto il banco.

Fu proprio un disegno di Andy che attirò l’attenzione del preside della scuola. Una mattina lo convocò nel suo ufficio e gli propose di partecipare a una piccola mostra interna.

Poi lo accarezzò lungamente.

A quindici anni Andy era un ragazzo non molto alto, magro, pieno di brufoli che disturbavano gli occhi scuri e lunghi dall’aria pensosa.

A scuola non c’era più Glenn, andato in collegio due anni prima, e non c’era più nemmeno il preside, sostituito da una grassa signora affabile.

Andy, ormai da qualche anno, non accompagnava più sua madre. Rimaneva ad aspettarla in casa e spesso la vedeva tornare stanca e inquieta.

«Non hai l’aria felice, mamma» le disse una sera che rientrò con il vestito in disordine e il trucco sgualcito.

Lei si mise a piangere a dirotto, andò a cambiarsi e disse:

«Mi passerà. Mangia intanto, non vorrai farmi dispiacere, vero?»

«No, mamma, no.» E si rimise a disegnare.

Andy amava soprattutto disegnare, fare ritratti, usare i colori. Aveva fatto e rifatto il ritratto di Glenn con gli occhi azzurrissimi, e quello della madre con il trucco pesante.

A venti anni Andy era non molto alto, magro, gli occhi lunghi e scuri e senza allegria. Sua madre era morta di un tumore all’ utero in pochi mesi. Prima di spirare gli aveva detto:

«Sii saggio, Andy, non vorrai darmi un dispiacere, vero?»

«No, mamma, no.»

E scappò da Pittsburgh.

Andò a New York con le sue poche cose e la voglia di disegnare.

Capitò da Glamour, la famosa rivista, che cercava giovani di talento. Il direttore fu gentile, lo trattenne a lungo nello studio, così come aveva fatto il preside.

Andy fu assunto.

Cominciò la sua clamorosa ascesa nel mondo della pubblicità. Si ricordò degli occhi azzurrissimi di Glenn, dei colori forti che usava sua madre, dei barattoli accatastati sugli scaffali del grande magazzino di Pittsburgh e cominciò a creare, a creare senza sosta, cartelloni, manifesti, copertine.

Conobbe un fotografo, Andrew. Spesso lo chiamava nel suo studio per farlo assistere alle sedute di posa. Spesso rimaneva a lungo con lui. Dopo ogni incontro la creatività esplodeva e Andy ideava spinto dal furore del rapporto appena avuto. Presto ne sentì sempre di più il bisogno.

A quaranta anni Andy era non molto alto, magro, gli occhi lunghi e tristi in un viso che cominciava a cedere.

Giaceva nel letto di un ospedale di New York gravemente ferito da una donna, fondatrice e unico membro della Società per fare a pezzi gli uomini, che si era introdotta nel suo studio e gli aveva scaricato una pistola addosso.

Si era salvato, ma nei due mesi d’ospedale aveva visto e rivisto la sua vita come in una ripetizione dei suoi quadri.

Ne aveva fatte di cose in quegli anni. Forse troppe se faceva un bilancio attento attraverso la collezione di fatture, biglietti aerei, cartoline, piantine di città, foto di gente che aveva alimentato la fama della sia Factory.

Già, la Factory. Un’ idea che gli era venuta dal suo essere soprattutto un pubblicitario, un creativo, un solitario creativo. Aveva accettato tutti in quella che poteva sembrare una multinazionale: barboni e aristocratici, puttane e travestiti, artisti e criminali.

La Factory fu la sua trovata più geniale. Più dei barattoli di Campbells o dei Martison Coffee o delle bottiglie di Coca cola. Di quelli la gente, dopo la prima sorpresa, non si sarebbe più stupita, ma della Factory, sì. Ognuno si era ritrovato, là dentro, ognuno aveva soddisfatto i suoi segreti desideri, abbandonandosi senza inibizioni a quell’ambiente accogliente e provocatorio.

Andy, mecenate e sfruttatore, regnava su tutti esibendo la sua omosessualità e le sue depravazioni, esponendosi come un prodotto da grande magazzino, più per alimentare continuamente il suo mito che per un autentico bisogno di mostrarsi.

Lui era rimasto solo, dentro, lui era rimasto quello che si accontentava delle cicche alla fragola. Il senso della Morte se lo portava addosso. Cos’era la sua pittura se non la rappresentazione del dissolvimento, di ciò che c’è e che scompare grazie al consumo, all’uso sconsiderato delle immagini e delle cose?

«Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere Morte.»

Ecco, lui era spinto da uno sfrenato bisogno di vedere gli altri umiliarsi e piegarsi e rivelarsi di fronte al ragazzino che aveva passato ore nelle stanzette squallide o nei corridoi deserti di un grande magazzino sporco.

A cinquantotto anni Andy era non molto alto, magro, gli occhi lunghi, seri dietro occhiali tondi e grandi. Il viso flaccido segnato da rughe cadenti ai lati della bocca. I capelli bianchi, pettinati come a otto anni, separati da un lato, a volte coperti da un parrucchino bianco, un po’ eccentrico e un po’ ridicolo.

Era famoso nel mondo. Uno dei geni artistici riconosciuti del ‘900. Ai suoi barattoli, le sue Marilyn, i suoi Mao Zedong, i suoi Elvys, i suoi fiori che facevano parte dei musei più importanti e delle collezioni più esclusive, si permise di aggiungere L’Ultima Cena dall’affresco di Leonardo.

Alla raccolta di scontrini e cartoline e biglietti aerei si erano aggiunti oggetti di tutti i tipi messi insieme, spudoratamente, nelle sale della Factory e nella sua stessa casa.

In un momento di presaga solitudine, Andy si fece fotografare truccato con i colori che usava sua madre: gli occhi ingranditi dagli ombretti, le sopracciglia marcate, il fard pesante, la bocca segnata da un rossetto scuro, i capelli nascosti da una parrucca biondo-mesciato.

Sotto quella foto, ingrandita a dismisura, incorniciata e issata su una delle pareti della sua camera da letto, lo trovarono morto il 22 febbraio 1987.

Triste, grottesco, tragico.

* Andy Warhol - 1928-1987

Milano, 30 luglio 2006

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