Americaaaaaaaaa!
Baricco, Tornatore, Novecento, Il pianista sull’oceano. I grattacieli di Manhattan che si rispecchiano nell’occhio sinistro dell’emigrante italiano.
E’ tutto ció che mi é venuto in mente allontanandomi con il battello dalla riva per la gita di sera. Forse le luci di quei grattacieli si stavano riflettendo nel mio occhio sinistro, ho pensato. E la voce della guida mi è sembrata stridula e ammaestrata mano a mano che ci avvicinavamo a Staten Island e ci indicava l’isola in cui gli emigranti venivano tenuti in quarantena appena sbarcati: Ellis Island, e ci raccontava della Statua della Libertá. Come mi sembrano ammaestrate tutte le teorie che vogliono questo paese il piú libero e il piú democratico del mondo.
Tanto per porsi domande su avvenimenti noti al mondo intero: questo non é il Paese che non ha esitato a massacrare gli indiani per prenderne il territorio? Non é il Paese che ha tenuto i negri in schiavitú per secoli? Non é il Paese che ha fatto entrare milioni di emigranti poveri, affamati, con i loro stracci nelle valigie di cartone, solo perché aveva bisogno di quei poveri, di quegli affamati per continuare ad affermare la sua vocazione di schiavista?
Questo Paese si é mai domandato quali ansie, quali disagi, quali frustrazioni gli emigranti vivessero? E la nostalgia? E la malinconia?
Il Vietnam, il Cile, l’Argentina, le bombe scaricate sul Laos, l’Iraq, Guantanamo...
Americaaaaaaaaa!
Feci il mio primo viaggio in America nel 1966 e ancora tre nel giro di pochi mesi. Rimasi qualche tempo a New York, Washington e San Francisco. Ci andai per lavoro.
Incontrai tre realtá molto diverse tra loro. Mi colpirono le diversitá ma non riuscii, allora, ad approfondirle.
Ero Alice nel paese delle meraviglie. Tutto immenso, tutto straordinario, tutto sorprendente. Dal pomodoro al taxi, dal negozio di dischi all’ascensore. Avevo in testa le immagini dei film con Frank Sinatra, Doris Day, Greer Garson. Quello che vedevo corrispondeva. Abitai al Woldorf Astoria e al Park Hotel: moquettes turchesi e bagni con doppi lavandini. Colazione portata in camera con il carrello da un cameriere negro.
Un incanto per una che non si era mai spostata cosí tanto dall’Italia, che non aveva termini di paragone. Per una educata al risparmio, per una che di quell’opulenza non aveva idea e che, soprattutto, non aveva cultura per interpretarla.
Mi portarono ad Harlem in una macchina accuratamente chiusa, con i vetri affumicati, perché era a rischio, quella visita. E a San Francisco assistetti, invece, a un ricevimento di negri in abito da sera.
I negri, allora, venivano chiamati negri.
Sono tornata, solo a New York, quest’anno: 2005.
Non l’ho vista immensa come allora, niente mi ha piú veramente stupita se non l’esibizione della grandezza. Ho capito che era cambiato il mio modo di guardare questo Paese.
E’ ovvio, dopo quarant’ anni, mi sono detta. Ma ho sentito che non mi arrivavano le stesse emozioni che se fossi ritornata a Londra o Parigi, ad Amsterdam o Madrid. Dopo quarant’ anni avrei notato i cambiamenti dello sviluppo economico, dei costumi, del traffico, ma avrei sentito Van Gogh e Rembrandt, Velasquez e Goya, Turner e Manet ancora lá, intorno. Quelli erano stati i loro luoghi di vita e d’ispirazione.
E io sarei stata in Europa.
Qui invece ho avvertito una sorta di immobilitá, pur nei cambiamenti apparenti.
I negri, infatti, si chiamano afro-americani e nei telefilm impersonano magistrati e poliziotti incorruttibili. Oggi, li incontri per le strade del centro: pochi nella Fifth Avenue o nella Park, molti nella Broadwai dove i negozi sono popolari e i prezzi abbordabili. Ad Harlem, che si trasforma in quartiere residenziale per bianchi, i turisti passeggiano convinti di immaginare che razza di ghetto sia stato per tanti emarginati. Dove vadano a finire i negri, anzi, gli afro-americani che lo hanno abitato per anni, non se lo chiede nessuno.
Little Italy é patetica con i negozietti di salami e caciotte che devono corrispondere a uno stereotipo italiano: lo squallore e l’odore di rancido che avevano in Italia cinquanta, sessanta anni fa. Al confine incalza Cinatow che ormai occupa, con le sue cianfrusaglie, i bugigattoli che sono stati degli italiani.
No, a colpo d’occhio, questa cittá non é cambiata.
Gli emarginati continuano a essere sempre emarginati. E la forza, la supponenza, l’arroganza del padrone é sempre la stessa, sempre piú dichiarata, esibita.
I primati, ecco la storia americana. Le guide si compiacciono di dire “ïl piú grande, il piú importante, il piú alto del mondo”. E tutti credono di partecipare da protagonisti a questo “piú”.
Mi sono detta: cosa sarebbe l’America senza i primati?
New York é l’ostentazione, New York é la crudelta’, New York é il cinismo dell’ America. Come King Kong: grande, grosso, terrorizzante, ma che (e lo spero fortemente), non riuscirà a evitare il suo annientamento.
No, New York, non mi ha impressionata piú.
Nei suoi Musei, con le collezioni “piú” numerose del mondo, non si trovano che capolavori europei e cinesi e egizi. Tutto arriva da “ältrove”. La loro pittura, con molta buona volontá, comincia dalla fine dell’Ottocento. E quella del Novecento ha l’esigenza di denunciare la solitudine, la poverta’ umana, la frustrazione di chi vive questa realtá: Hopper, Worhol, Pollock...
Le grandi orchestre americane hanno una sola radice: famosi direttori europei, ingaggiati alla fine dell’Ottocento dai magnati in cerca di pubblicitá, o negli anni ’30 in fuga dal nazismo e dal fascismo. Come Malher, Furtvangler, Toscanini.
Cosa si impara in questo paese se non a sopravvivere sopraffacendo l’altro? La legge del piú forte, del piú grande, del piú alto.
L’Egitto,
Quanti americani conoscono questa storia? Gli intellettuali, quelli che viaggiano. Ma quanti viaggiano in un paese cosí sterminato?
Credo che ci sia, nell’ americano medio, la convinzione che niente somigli a ció che lui vive. Non ha bisogno di paragonarsi. Appartiene ai “piú”.
Dove sono finiti quei bei ragazzoni alti, biondi, sani con i capelli a spazzola che tanto ci hanno fatto vedere nei film di guerra degli anni ‘60?
Oggi, forse appartengono tutti ai “piú” grassi. E’ impressionante il numero di obesi che si incontra. Giovani e anziani, uomini e donne e ragazzi.
Mi dicono che piú si scende nella scala sociale e piú sono grassi perché nutriti dai Mac Donald e dai tanti cibi confezionati che si comprano a basso costo negli immensi e innumerevoli supermercati.
Ma un paese dove si é “piú”, perché non si occupa di una piaga sociale cosí diffusa?
Certo, le mie sono considerazioni superficiali, a “botta calda”.
Certo, di un paese come questo si é sicuri d’aver captato atmosfere importanti dopo poche settimane; di doverle approfondire, dopo mesi; e di doverle studiare a fondo, dopo anni.
Mio figlio vive e lavora in Oregon, a Portland. Una cittá democratica, pacifista, ambientalista.
Passo dei periodi nella sua casa situata in un quartiere di una perfezione imbarazzante, quasi angosciosa.
Case unifamiliari in legno, stile Tudor, con giardini, fiori, prati curatissimi. Bandiere americane o bandiere, comunque, che danno il benvenuto ai passanti.
Alberi, procioni che abitano i giardini, scottaioli che attraversavano le strade e si arrampicavano su per i tronchi sgranocchiando qualcosa, porte senza allarmi, auto posteggiate davanti alle case. E strade deserte durante il giorno: puoi passeggiare per ore senza incontrare nessuno, nel silenzio piú completo. E se qualcuno lo incontri ti saluta, ti augura buona giornata. Magari sta portando a spasso il cane e ne raccoglie con cura la cacca, in possesso com’é di sacchetti distribuiti dal Comune.
Mi sono chiesta: chi c’é dentro queste case? Gente giovane, felice, sana che corrisponde alla perfezione di Truman Show? O ci sará un regista che questa perfezione la dirige?
Non lo so. E’ difficile immaginare anziani, malati o gente piena di odio e di frustrazioni.
Cosa apprezzo di quello che conosco dell’America?
La “civiltá del cesso”. Dovunque hai toilettes perfette. Persino con la crema per le mani e i tampax offerti in un grazioso cestino. Se non fossi in menopausa da anni, ne approfitterei volentieri.
E poi la super-organizzazione.
Se un sabato sera, alle 20,30 ti venisse voglia di ordinare una mutanda elastica nera, puoi telefonare alla casa che la distribuisce, chiedere di parlare nella lingua che preferisci, ordinare dando il numero della tua carta di credito e il lunedí la ricevi puntualmente a casa insieme al catalogo che ti presenta la collezione completa di mutande.
Tutto é fatto per vendere, per far comprare. In ogni negozio i commessi ti vengono incontro per chiederti se hai bisogno di informazioni, ti salutano augurandoti buona giornata, buon pomeriggio, buona serata. Le frasi sono programmate, senti che c’ é la preparazione. Ma sei sempre accolto e trattato con grande riguardo. Sei sacro perché puoi comprare e loro sono lí per incoraggiarti a farlo. Hanno studiato per questo.
A New York ho potuto cambiare tre volte una camicia passando da un negozio all’altro. E ho potuto comprare in super saldo pantaloni e golf. C’é sempre un reparto saldi, non una stagione per i saldi. E la gente compra quando é opportuno comprare. L’estate per l’ inverno e viceversa.
A settembre é giá tutto pronto per Natale e per l’anno prossimo. Agende e nastri e cartoncini.
E’ sufficiente per accettare e vivere un paese?
Ripenso a Novecento di Baricco e Tornatore. Ripenso alla nostra cultura e ai nostri squilibri. Alle nostre difficoltà e ai nostri sogni infranti. E mi convinco che anch’io, come Novecento, non avrei abbandonato la nave per andare verso strade senza fine.
Maria Grazia Mezzadri Cofano
Portland, 29 settembre 2005
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