sabato 12 maggio 2007

sorella del mio cuore di Chitra Divarakuni

Sorella del mio cuore

Di Chitra Banerjee Divakaruni

Una bellissima storia d’amore. Di quelle che fanno bene al cuore, di quelle che fanno desiderare di incontrare persone così per vivere con loro una storia così.

Sono due bambine, e poi adolescenti e poi adulte, le protagoniste. Due sorelle che non sono nemmeno sorelle. Si credono cugine ma non sono nemmeno cugine. Sono amiche per la pelle, pronte a fare per l’altra ogni sacrificio, ogni rinuncia nella più grande riservatezza e con la più grande generosità.

Crescono insieme in una grande casa con tre donne che sono madri e zie e complici e consigliere. I padri sono partiti per vivere una avventura di cui si saprà tutto alla fine. E crescono a Calcutta, nella Calcutta di oggi in cui gli uomini sono informatici e ingegneri, viaggiano e si specializzano in America. Occupano posizioni impegnate, gli uomini, ma, nella vita privata, continuano a essere soggiogati dai voleri delle madri, secondo le antiche tradizioni. E se per gli uomini decidono le madri, per le ragazze decidono le madri dei maschi e le loro stesse madri.

Un mondo tutto femminile, insomma, che domina e subisce.

Non ci si può sottrarre alle tradizioni. Le ragazze non possono volere e scegliere l’uomo da sposare, il condizionamento della società è pesantissimo.

È questa una delle parti più interessanti del libro: il contrasto tra il nuovo, così avanzato, e il vecchio così radicato.

Lo stile di questa scrittrice è trasparente, lineare, con bellissime riflessioni sulla realtà della vita, dei sentimenti, delle rinunce che le donne devono affrontare. I personaggi femminile sono bellissimi e perfetti nei loro ruoli.

Ho rivisto il nostro Paese di cinquant’anni fa, quando alle ragazze si imponevano disciplina e restrizioni e comportamenti. E i rapporti dovevano essere regolati solo dalla famiglia. Il rapporto d’amore tra le protagoniste mi ha fatto rivivere lo stesso rapporto vissuto con una delle mie sorelle. Ci siamo amate senza riserve fino al momento in cui i fatti hanno rivelato che, forse, non era stato vero niente.

Loro invece (ma succede solo nei libri?), sono riuscite ad arrivare fino in fondo.

La delusione di questo libro, così piacevole, così vero, è arrivata nel finale: ispirata a Carolina Invernizio o ai Miserabili per l’inserimento di una scoperta abbastanza inverosimile .

Comunque vale la pena di leggerlo per la trasparenza e la forza dei sentimenti che ci dà nelle 300 pagine precedenti.

MGMC

7 maggio 2007

sabato 21 aprile 2007

Genitori e figli

Genitori e figli

Non spaventatevi, non voglio affrontare un trattato sul rapporto tra genitori e figli. Mille trattati, miliardi di trattati, scritti e approfonditi da mille, miliardi di super -esperti non esaurirebbero le sfaccettature di questo rapporto.

Genitori e figli: il rapporto più difficile del mondo. Il rapporto che più di altri, secondo me, è in balia dei tempi. Il rapporto che non può avere codici. Il rapporto a rischio errori più di qualunque altro. Il rapporto che può provocare danni incalcolabili.

Perché quei figli diventeranno adulti e saranno la società di domani.

Detto questo, che dovrebbe rassicurarvi sul mia incapacità di scrivere un trattato, affronto questo argomento dal mio punto di vista, dalla mia esperienza, e dall’attenzione che ho sempre avuto per i “figli”.

Intanto dichiaro che sono sempre dalla parte dei “figli”.

Io non penso affatto che i ragazzi abbiano la responsabilità dei loro comportamenti. Che hanno fatto gli adulti per educarli ad altro? E’ questo che mi sembra il perno della discussione.

Se ne fa un gran parlare, in questo momento.

A Torino un ragazzo viene sbeffeggiato dai compagni, filmato e fatto vedere al mondo, in Germania un ragazzo uccide in una scuola per diventare un eroe, in grandi e piccole città adolescenti violentano e intimoriscono le compagne di scuola, e poi quelli che uccidono madre e fratello, i bambini legati in un asilo, la preside che punisce due ragazzini che si baciano nell’intervallo e infine, sempre nella solita, squallidissima America, un ragazzo sudcoreana uccide trentatrè compagni e professori..

Insomma, episodi di diversa portata che però denunciano un disagio profondo, una confusione profondissima tra gli adulti.

La famiglia e la scuola, da luoghi di protezione, diventano luoghi di violenza.

E vediamo genitori e insegnanti non più uniti dallo spirito di collaborazione ma di contrapposizione perchè i genitori, per difendersi, difendono sconsideratamente i figli. E i ragazzi, cosa volete che facciano? Si sentono spalleggiati e il loro rapporto con gli adulti diventa di sfida: se hai paura di me io ti aggredisco, abbaio più forte.

Professori emeriti, a commento di uno degli atti di violenza consumato da adolescenti su altri adolescenti, invocano, in televisione, più tempo dei genitori, più ascolto, più disponibilità, più attenzione.

Ma come si può pensare di dare tempo, disponibilità, attenzione se non lo si è fatto per 13, 14, 15 anni? Improvvisamente, secondo l’emerito professore, una mattina i genitori dichiarano che vogliono dare più tempo, più disponibilità, più attenzione.

Pensate che i figli capirebbero?

L’ascolto, il tempo, l’attenzione sono comportamenti che i genitori dovrebbero dare dal momento della nascita dei figli. Solo così si potrebbe dire al figlio: sono disposto a darti “più”. Ma se quel “più” parte dal nulla che senso può avere?

Chi sono oggi questi genitori? Da dove arrivano e quali percorsi hanno compiuto? La figura paterna è sempre stata quella che spinge i figli verso una funzione di emancipazione. Il padre non ha generalmente funzione educativa. La madre invece ha la funzione di accoglimento e di soddisfazione del bisogno del figlio. Pensiamo all’allattamento al seno. Solo trenta anni fa se una donna non allattava sentiva la “colpa” di privare il figlio di un nutrimento indispensabile. Poi, grazie a molte teorie su comportamenti educativi moderni, si è passati alla moda del latte artificiale. Si è tolto al bambino, e anche alla madre, il momento di più intensa relazione tra loro: l’allattare è la dipendenza del bambino dalla madre e se lo si priva gli si procura un trauma.

Sembra che oggi, le madri quarantenni, abbiano scoperto l’allattamento al seno e non vogliano privarsi, loro (secondo me), di questa esperienza.

Comunque dalla suddivisione dei ruoli tra padre e madre è abbastanza facile analizzare la situazione che abbiamo sotto gli occhi.

I padri. A me non sembra che oggi il ruolo dei padri degli adolescenti sia quello di indirizzarli a emanciparsi. Sono quarantenni, nella maggior parte dei casi, scontenti della loro posizione nella società o impegnati a raggiungere il successo professionale nel quale si identificano. Spesso dipendenti dalle mogli, con i figli si impegnano il tempo di una partita di calcio in televisione o al massimo allo stadio. Pacche sulle spalle e parvenza di cameratismo. Ma dei turbamenti adolescenziali del figlio che ne sanno? Di quello che il figlio sta prendendo dalla società in cui vive, che ne sanno? E sanno dei suoi comportamenti a scuola, con i compagni, con gli amici? Delle sue difficoltà intime?

La madri. Cresciute dopo il femminismo, quando con i reggiseni le donne bruciarono molti sentimenti, molto di “quell’essere donna” che oggi si cerca di recuperare indossando un “intimo” pubblicizzato e costoso, sono aggressive e stanche.

Ma la donna sa dov’è? Secondo me, no. La donna oggi crede di aver conquistato un posto rilevante nella società. Nella società consumistica, però. Perché anche lei è un oggetto di consumo. E se un tempo si è battuta per non essere la donna-oggetto dell’uomo, oggi, abbiamo sotto gli occhi un modello di donna-oggetto di se stessa, tanto la donna è tesa a sfruttare la sua immagine, il suo corpo. Episodi di cronaca lo mettono in evidenza.

Almeno è ciò che si vede, che le adolescenti vedono. E’ vero, le donne sono dovunque: fanno i giudici e i poliziotti, i marinai e i presidenti del consiglio, i ginecologi. Le carriere sono aperte, hanno diritto alle quote rose.

.Ma la vera essenza della donna, quella che le ha dato il “vero”potere, il potere di educare, di formare generazioni, di “amministrare” la famiglia , quel potere chi lo esercita? Per correre dietro a un potere fittizio, a una parvenza di conquista, a una libertà effimera che l’ha messo su un piano ambiguo e pericoloso?

Sì, lo so che la maggior parte delle donne protesterà. Ma perché non facciamo una analisi onesta degli errori che sono sotto gli occhi di tutti attraverso i comportamenti degli adolescenti?

Gli uomini la odiano, la donna. L’hanno sempre temuta. Sanno bene che sarà sempre lei a dominarli.

Umberto Galimberti, in un bellissimo articolo sulle donne seviziatrice a Bagdad ha spiegato perché anche la donna può saper seviziare: perché nessuno conosce il corpo meglio di lei. Quel corpo che le permette di generare e di fare andare avanti il mondo. C’erano tribù (non so se l’usanza è ancora attuale), che tagliavano i seni alla donna per colpirla lì da dove arrivava il suo potere: la maternità, gli uomini che la violentano quando ormai la libertà sessuale è assoluta, il potere che cerca di controllarla stabilendo le quote rosa. Anche i convegni sulla donna, o le leggi che dovrebbero privilegiarla, non sono un modo di ghettizzarla? “Sei un’altra cosa, appartieni a un’altra sfera. E’ per questo che parliamo di te”.

Quando cominciai a lavorare, partecipando a riunioni in cui c’erano uomini e donne, mi accorsi dell’affanno delle donne di dover essere le più brave. Mi dissi: “Non voglio diventare come loro”. Non mi interessava sembrare la più brava, ritenevo più importante “esserlo” e basta.

Sono anni che dura la competizione. Sembra che l’unico scopo della vita di una donna sia mettere l’uomo in difficoltà per prevalere, per vincere.

Ma vincere cosa? Vi sembra che oggi la donna sia vincente?

Da donna-oggetto dell’uomo, che la donna ha combattuto giustamente a donna-oggetto per se stessa. Ormai la donna gestisce il proprio corpo, esponendolo senza nessuna eleganza e nessuna furberia, per trarne i benefici dell’arrivare a mete che, francamente, non le danno prestigio ma le procurano solo il disprezzo e il disinteresse sempre maggiore dell’uomo.

Perché tante donne sole? Perché il desiderio dell’uomo è diminuito vertiginosamente?

Non si fa che parlare, in tutte le riviste più diffuse, della diminuzione del desiderio sessuale. Grandi servizi con percentuali e confronti tra i paesi occidentali. Dell’Africa, e dei paese orientali, per fortuna non ne sappiamo ancora nulla.

Ma quando si parla tanto di un argomento non vuol dire che esiste un grande problema?

Vorrei chiudere commentando la più recente strage americana. Trasmissioni televisive la hanno vivisezionata. Si è detto che gli assassini in genere sono ragazzi frustrati, che scaricano sugli altri i propri fallimenti, che da 30 anni le stragi sono aumentate. Gli esperti si chiedono allora: è possibile che l’umanità sia diventata tanto più cattiva? C’è chi sostiene di sì, e chi sostiene di no. Nessuno però ha commentato una frase della lettera lasciata dal ragazzo: colpa dei ricchi (non la riporto esattamente). Questo denaro esibito sfrontatamente in ogni occasione, tra piccoli e grandi, non dice nulla agli esperti? E i famosi “valori” che sono stati sotterrati dalla divinizzazione del denaro, non suggerisce nulla? E i genitori, non si sentono neanche un po’ responsabile del tanto, del tutto, che viene concesso ai ragazzi perché è più sbrigativo dare che dedicare tempo e pazienza e affetto?

Finisco con questa riflessione. Non so a quanti servirà. Sarei felice se almeno una persona la cogliesse.

sabato 24 marzo 2007

Non di dire notte commento a Amos Oz

Non dire notte

di Amos Oz

Anche con questo libro di Oz riconfermo il mio amore incondizionato per lo scrittore israeliano. È un libro scritto nel 1994, quindi molto prima di Storia di amore e di tenebra.

Non voglio considerarlo una storia-metafora su Israele, come si è sempre tentati di interpretare i romanzi degli scrittori israeliani: Israele e sempre Israele. Naturalmente Israele c’è anche in questo romanzo, perché la storia è ambientata in un piccolo paese di fronte al deserto.

Voglio invece analizzare Non dire notte nel rapporto che Oz descrive, con indicibile sensibilità e raffinatezza, tra i due protagonisti: Theo e Noa. Vivono insieme e non sono sposati. Lui, urbanista di successo, sessantenne, e lei più giovane di diversi anni che si è dedicata molto a curare un padre, perlomeno, bizzarro. Vivono in una piccola località di fronte al deserto e ci sono arrivati perché Noa l’ha scelta per vivere la sua storia con Theo.

Dopo sette anni di vita insieme e in un momento in cui si sente l’assuefazione del rapporto: Succederà qualcosa Theo. Non hai anche tu il presentimento che è come se fosse finito il preludio? Noa, ha il desiderio di svincolarsi da questo rapporto esclusivo dimostrando le sue capacità, al di là dell’insegnamento. Vuole avere una iniziativa sua, tutta sua, nella quale buttarsi perseguendo obiettivi sociali. Vuole cogliere l’occasione che le viene data dalla morte per droga di un suo allievo. Vuole affrancarsi dall’influenza di Theo che certamente, dei due, è la “personalità”.

Ma Theo, con un sottilissimo gioco crudele, perverso, nel quale, forse inconsapevole, alternando intromissioni scoraggianti e improvvisi gesti di grande tenerezza, mette in azione la sua competenza e la sua autorità, e impedisce a Noa, senza un atto di forza, di realizzare ciò che voleva. E Noa si arrende.

Rivelatore il pensiero di Theo: Quante volte, in cucina, mi è venuta tutt’a un tratto voglia di dirle qualcosa che la ferisca veramente. Che le faccia male come uno schiaffone.

Quante volte si ha bisogno di ferirsi perché ci si ama e non si può pensare di rendere l’altro autonomo da noi? Quante volte il bisogno di possesso non permette alcuna generosità?

In un certo senso si può dire che quasi dappertutto si trovano sostanze che generano dipendenza.

E’ solo per dipendenza che Theo e Noa restano insieme? Come si può stare soli senza l’altro? E’ un grande tema da approfondire per tutti i rapporti e non solo per quelli d’amore.

Il romanzo, ha una struttura in cui si alternano i punti di vista di lui e di lei, e, a volte si inserisce una voce narrante esterna.

Per me un libro raffinatissimo, grande, come sempre Oz.

15 marzo 2007

Il mio nome è rosso commento a Pamuk

Il mio nome è rosso

Orhan Pamuk

I libri aggiungono all’infelicità dell’uomo una profondità che scambiamo per consolazione.

Comincio con questa frase la recensione allo straordinario libro di Pamuk. Può sembrare che il romanzo sia una riflessione sui libri. Non è così, ma l’ho amata talmente che mi piace citarla subito.

Il romanzo invece è una lunga riflessione sul confronto tra la cultura orientale e la cultura occidentale in una storia ambientata tra i miniaturisti turchi del ‘500. Diventa una miniatura lui stesso, il romanzo. Anzi, così minuzioso, così attento ai particolari, così “narrativo” nella raffigurazione di questo ambiente, che ci sembra vedere muoversi i personaggi tra i colori raffinati, vivi, studiati, tipici di quell’arte che tanto ammiriamo nei musei o nei monumenti turchi e islamici. Una straordinaria arte che portava i miniaturisti a diventare ciechi tanto era l’impegno che il lavoro richiedeva per dare al Sultano tutto il meglio della loro professionalità.

Lo sfondo, come in Istambul e in Neve, è il confronto tra le due culture: il declino della cultura orientale che non riesce a competere con quella occidentale.

I miniaturisti infatti si confrontano con l’arte che arriva da Venezia e che, solo in segreto possono guardare, ammirandola e volendo imitarla, pur condannandola per le raffigurazioni umane che la loro religione non permette.

Pamuk inserisce nel romanzo una trama gialla: c’è un assassino tra loro che uccide ferocemente i miniaturisti. Ma è un espediente per concedere qualcosa alla curiosità del lettore, secondo me, dato che la lettura di questo libro è decisamente impegnativa. Forse non era necessaria, o forse sì, non lo so.

So che Il mio nome è rosso è un libro di straordinario fascino. E quando, in alcuni momenti, si pensa che forse alcune pagine sono di troppo, alla fine ci si rende conto che la miniatura ha bisogno di tutti quegli elementi e che tutto, anche il più piccolo dettaglio, è indispensabile.

Da leggere, assolutamente.

15 marzo 2007

sabato 17 marzo 2007

Lentezza

Questo pezzo verrà pubblicato nel prossimo numero di Ascoltami

n. 20 – La Guarigione: Il tempo

Lentezza e velocità –

Una ridicola iniziativa

In uno degli ultimi giorni di febbraio è stato stabilito un giorno per “celebrare” la lentezza.

Naturalmente, nel proposito dei promotori, c’era l’idea di contrapporre la lentezza alla velocità, che oggi caratterizza la nostra vita.

Ma non vi sembra terribile proporre un giorno, un solo giorno dell’anno, alla scansione misurata del tempo? La lentezza, come la velocità, dovrebbero avere un loro naturale posto nello svolgersi della nostra giornata.

Alcune cose devono essere fatte lentamente, altre velocemente.

Se devi soccorrere un malato ci vuole rapidità, bisogna arrivare in tempo, è necessario correre. Se devi pregare o assistere un malato, bisogna avere il tempo necessario, non puoi avere limiti perché la fretta creerebbe solo molto disagio. Come si può affrettare il dialogo con una persona che fa fatica a parlare? E come si può essere sbrigativi con un bambino che cerca il contatto con l’adulto?

Viene elevano a straordinario valore un comportamento che dovrebbe far parte del nostro quotidiano.

Il tempo è proprio una di quelle cose che non può avere regole. Un viaggio in nave impone tempi di percorso molto diversi da un viaggio in aereo. Il mare, lo spazio, permettono la riflessione, l’abbandonarsi ai pensieri; l’aereo trasporta e catapulta da un posto all’altro del mondo senza dare il tempo di considerare le differenze di culture e di realtà.

Il giorno di febbraio diventa il ghetto della lentezza?

È possibile che l’anno prossimo, se verrà riproposta l’iniziativa, troveremo gadgets adatti: tartarughe e lumache saranno vendute in oro e pietre preziose, in cioccolato e torrone. In Cina la tartaruga è il simbolo della longevità: un bel simbolo in un’epoca in cui nessuno vuole più morire.

Stiamo perdendo così profondamente il senso della vita e il rispetto verso le esigenze di chi ci sta accanto da dover celebrare, con imposizioni dall’alto, comportamenti che dovrebbero essere naturali, dettati dall’amore, dalla dedizione?

E ciò che trovo insopportabile è che chi aderisce a queste “celebrazioni”, si sente in pace poi tutto il resto dell’anno e può regolare in pochi minuti rapporti che esigono invece tempo, tanto tempo.

Avete voglia di farci su una riflessione? Fateci sapere cosa ne pensate.

domenica 11 marzo 2007

Cina-il drago rampante - commento a Renata Pisu

Cina – Il drago rampante

di Renata Pisu

Molto interessante questo libro che ha, come sotto-sotto titolo: tra modernità e tradizione, un paese alla ricerca dell’identità.

Renata Pisu fa un percorso molto obiettivo e da grande conoscitrice della Cina quale lei è, giusto tra tradizione e modernità. Il suo percorso ci permette di capire da dove arriva questa vivacissima Cina di oggi, che vediamo correre verso primati economici, tecnici, industriali, verso un capitalismo che nelle città non è controllabile, e quale è stato il ruolo fondamentale dei suoi padri storici, a cominciare naturalmente da Mao e continuando con Deng Xiaoping che proclamava: Arricchirsi è glorioso!

Ma dove si ferma invece questa Cina? Arretrata ancora nelle campagne, quasi come cinquant’anni fa, mantiene leggi che impediscono a un contadino di trasferirsi in un'altra regione, frena l’evoluzione delle donne, tanto da non desiderare mai di avere una femmina, controlla ancora le nascite avendo ben 1miliardo e 350mila abitanti.

Sembra che tutto ciò che sta avvenendo in Cina non abbia una precisa pianificazione, che l’ansia sia quella di competere con le altre grandi nazioni, prima fra tutte l’India, la vicina altrettanto popolosa ma che, non imponendo il controllo delle nascite, potrebbe diventare, tra non molto tempo, un paese con grandi risorse giovani da immettere sul mercato.

Sarà un privilegio essere spettatori di tanta evoluzione. Noi europei, a nascite-zero, saremo tra poco un continente decrepito, fuori da tutti i giochi che si presentano sullo scenario mondiale!

Il libro della Pisu affronta i problemi dell’eros, delle religioni, degli intellettuali, delle città e delle campagne. Un itinerario veramente interessante narrato con semplicità e conoscenza profonda del Paese.

Da leggere.

11 marzo 2007

sabato 17 febbraio 2007

Everyman di Philip Roth - commento

Everyman

di Philip Roth

«La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro» è la dichiarazione che fa Roth a pag. 106 di Eveyman confermando un pensiero che lo perseguita ormai da anni.

Questo ultimo libro, dalla copertina nera, presentato come un capolavoro in America e in Italia, mi ha proprio delusa.

Roth riprende i suoi classici temi: la competizione del protagonista con l’immagine perfetta di un fratello (lo Svedese nella Pastorale americana), i fallimenti matrimoniali, la vecchiaia= malattia=morte, l’ossessione del sesso, il ricordo di giochi erotici perduti, e infine, il rifiuto totale di accettare una diversa condizione della vita, nel momento in cui la vita si trasforma anche perché il corpo non risponde più agli impulsi della giovinezza.

Avendo il tempo di analizzare i suoi precedenti (grandi), romanzi, si ritroverebbero gli stessi concetti, e, probabilmente, anche le stesse frasi. Comunque le stesse ossessione che Roth vuole rendere universali - non dando un nome al suo protagonista - ma che invece sono le ossessione dell’uomo Roth, e non, per fortuna, di tutti gli uomini anziani.

Sembra che per Roth, “vita” sia sinonimo di sesso, se questo viene meno, non si può più parlare di “vita”.

Questo libro dice, secondo me, che Roth ha ormai poco da dire. Non fa i conti con la morte, così come lui stesso aveva dichiarato tempo fa in una intervista, ma ripropone al lettore, forse furbescamente, cose già ampiamente dette e, secondo me, dette anche in modo più convincente e originale.

Tanto la trilogia sull’America mi aveva conquistato, tanto l’Animale morente, mi aveva coinvolta per alcune meditazioni che si potevano fare proprio sulla vecchiaia, tanto Everyman mi ha irritata provocandomi un rifiuto totale sull’autore.

Milano, 12 febbraio 2007

mercoledì 14 febbraio 2007

Istambul di Orhan Pamuk - commento

Istanbul

di Orhan Pamuk

Tristezza è la parola più usata da Pamuk per raccontare la sua storia d’amore con Istanbul.

Perché di una storia d’amore si tratta tra un bambino nato in una famiglia agiata, da una madre bellissima, che lui, (è evidente), ama molto, e una città languida, decadente, triste, grigia, sporca, con l’affanno, fino all’esasperazione, del confronto con l’occidente.

La tristezza «È una passione della mente che la città ha assimilato con orgoglio.»

Istanbul fa da sfondo alla vita di Pamuk e la vita di Pamuk fa da sfondo al racconto sulla città. Le due vite si incrociano piene di tristezza e malinconia: Istanbul, per il fallimento della sua ambizione di grande città al confine tra oriente e occidente, e Orhan, per una infanzia e una adolescenza tra genitori in costante tensione.

A testimonianza tante fotografie: scorci di una città in un affascinante abbandono, una città in bianco e nero, la definisce lo scrittore, e immagini di una famiglia borghese, con tutto il clichè dei borghesi benestanti.

E poi l’eccitazione dei letterati francese dell’800 per Istanbul, l’amore di Pamuk per la letteratura occidentale e per gli scrittori turchi, suoi maestri, promotori di una Enciclopedia di Istambul.

Dopo aver letto questo libro pieno di fascino e pieno di amore, mi ha colpita la fuga di Pamuk da Istambul per le minacce di morte ricevute. Devo confessare che non me lo sarei aspettato. Forse, dopo tante dichiarazioni, lo avrei immaginato sulle barricate fino all’ultimo respiro.

Ma anche gli scrittori sono uomini con tutte le loro paure. E quando si comincia a essere celebri deve essere molto difficile rinunciare alla celebrità e a tutto ciò che questa condizione si porta dietro.

12 febbraio 2007

martedì 30 gennaio 2007

Intorno alla mostra CINA

Intorno alla mostra CINA

Come si può scrivere della Cina di oggi senza tenere costantemente presente radici e percorsi di questo paese?

Feci il mio primo viaggio in Cina nel 1981 con l’associazione Italia-Cina, una delle poche organizzazioni che vi avevano accesso. Ricordo che quando decisi mi chiesi se era prudente affrontare quell’avventura. Ci arrivai con la testa piena della propaganda che si faceva sui nostri giornali: lampadine fioche, pensieri di Mao che venivano letti durante le ore di lavoro, cibo razionato. Mi aspettavo un paese cupo, triste e invece scoprii, nelle città che visitai: Pechino, Nanchino, Shangai, Canton e alcuni villaggi interni, gente che non aveva l’aria di essere traumatizzata.

Nei musei vidi famigliole cinesi, gente sorridente e sorpresa di vedere facce occidentali. Niente mi sembrò come avevo immaginato anche se i cinesi erano ancora tutti in divisa grigia, gli alberghi erano sporchi (molto), le strade delle città affollate da biciclette, esisteva un solo negozio per turisti e si parlava della rivoluzione culturale come del più grande flagello che avesse subito il Paese.

Molti argomenti erano tabù per le guide che ci accompagnavano. Vidi anche una delle ultime donne con i piedi fasciati. Piedi che venivano fasciati non per rendere le donne più belle ma solo perché non potessero scappare. Feci parte del primo gruppo autorizzato a entrare nel paese natale di Confucio, appena riabilitato e, accanto a delle bottegucce artigiane e la strada principale non fosse asfaltata, trovai una immensa libreria.

Riportai da quel viaggio l’impressione di una popolazione serena, nonostante l’evidente povertà.

Al ritorno mi misi a studiare la Cina e per un anno e mezzo. Lessi tutto quanto potevo trovare in giro: da Snow alla Collotti Pichen, alla Macciocchi, al romanzo del xvi secolo di Chin P’ing Mei che da solo è una grande lezione sulla Cina di quel tempo e di tutti i tempi fino a Mao.

Fui folgorata da quanto Mao avesse realizzato, da quanto la Lunga Marcia fosse stato un miracolo. Da Snow ebbi la spiegazione del perché fosse stato adottato il comunismo: l’occidente era la rappresentazione degli occupanti e il Giappone del vicino usurpatore. La Russia aveva aiutato Mao a stabilire una politica nel Paese, aveva mandato tecnici: inevitabile quindi la scelta.

E nel tempo, ritornata in Cina al seguito di mio figlio che vi ha lavorato per 10 anni realizzando grandi opere per una importante società italiana, ho riconfermato le mie opinioni, assistendo, stupefatta, alla velocità dei cambiamenti.

Sono stata in un cantiere nello Yanan quando ci volevano tre giorni di viaggio per arrivarci. Solo il treno da Kumming a Panzihua impiegava nove ore ed era occupato anche da topi oltre all’impossibilità di usare la toilette. Ricordo che viaggiai cercando di appoggiarmi il meno possibile al sedile e a tutto ciò che mi circondava.

Sono stata a Shangai quando ancora quel meraviglioso museo (costruito nel 1995 da un architetto giapponese), non era stato realizzato, quando Pudong, con i nuovi quartieri e il nuovo aeroporto, non c’era ancora, quando lo stupendo teatro d’opera costruito nel 1998 dall’architetto francese Charpentier, non era stato previsto. Ho avuto il privilegio di vivere una zona della Cina non da turista ma da residente, a contatto con la gente di tutti i giorni.

Ora, ciò che voglio sostenere è: senza Mao, oggi, questa Cina non esisterebbe. Ciò che mi dispiace in molti articoli che proliferano sui nostri giornali, è la sottolineatura del “totalitarismo” e gli effetti nefasti sul Paese. Persino per la soppressione dei Pokemon non sì è evitato il ridicolo attribuendola a un atteggiamento autoritario. Ma chi conosce questi cartoni mostruosi, sa che è solo un bene che un bambino non li veda. E non credo proprio che i bambini cinesi si sentano discriminati per questo.

Ma quando i giornali impareranno a essere seri?

Nell’articolo del 16 luglio scorso, Federico Rampini, corrispondente di Repubblica in Cina, dopo aver ripreso passaggi di Snow, aver detto dell’eroismo e delle enormi difficoltà vissute durante la Lunga Marcia, finisce col dire che Snow potrebbe essere stato strumentalizzato e che già allora, nella liberazione della Cina dai giapponesi, c’erano i germi della dittatura.

Ma ci si rende conto, intanto della tendenziosità e della malafede, ma anche di cosa voglia dire una rivoluzione in un paese in cui la Città Proibita, per secoli, è stata il simbolo del rapporto tra chi esercitava il potere e la popolazione? Dentro le mura la vita e i privilegi, oltre le mura non si aveva il diritto di esistere. Non era forse totalitarismo quello degli imperatori che “ignoravano” milioni di vite umane?

E’ su questo sfondo che metterei la bellissima mostra CINA che si è tenuta a Roma alle Scuderie del Quirinale. I famosi, stupefacenti guerrieri di terracotta, i bronzi, le porcellane, il guerriero di giada, tutti reperti provenienti dalle tombe degli imperatori, cosa sono se non una dimostrazione della potenza e della ricchezza degli Imperi che si sono succeduti? Quanti, ma quanti cinesi sono morti nella costruzione delle tombe che dovevano assicurare benessere e felicità ai potenti anche dopo la morte?

Le intenzioni di Mao erano quelle di sopprimere le distanze, dare a ciascuno una dignità di vita attraverso il lavoro e la cultura.

Certo, non è riuscito neanche a lui, come non riesce a nessuno, proprio a nessuno al mondo. Non posso negare che il regime di Mao non abbia portato morte, esecuzioni, lotte di fazioni, soppressione di nemici.

Ma chi conosce una rivoluzione che non abbia dovuto pagare questi prezzi? E in più, una rivoluzione che riguardava un miliardo di persone.

Non dimenticherò mai, nell’81, un gruppetto di cinesi, in un loro grande magazzino, guardarci stupiti e divertiti perché ci contendevamo le stoffe a quattro lire.

Mi raccontarono allora dei cadaveri che avevano galleggiato sul fiume Yangtze e della Banda dei quattro che aveva distrutto i monumenti storici (di cui vidi alcuni resti).

Ma quel gruppetto di cinesi divertiti, nel povero grande magazzino, non aveva raggiunto la dignità del vivere attraverso il lavoro, il cibo quotidiano, la coscienza di essere considerati? Io li ho visti: non avevano l’aria angosciata.

Non è un prezzo che si deve pagare per uscire da condizioni disumane come i cinesi poveri hanno vissuto prima della rivoluzione?

Noi europei ne abbiamo avute di esperienze tragiche, in dimensioni e condizioni ben più limitate. Mentre nel ’34 Mao costruiva, noi eravamo sull’orlo del baratro con la supponenza della nostra civiltà.

Non sembra strano che la Cina oggi sia il paese che sta preoccupando le grandi potenze occidentali e noi stentiamo a mettere insieme l’Europa?

D’altronde, se in Cina ci fosse la democrazia, così come la intendiamo noi, non ci sarebbe lo sviluppo economico che si sta realizzando. Impossibile tenere insieme un miliardo e mezzo di persone senza regole anche autoritarie.

Si denunciano i diritti umani violati, la povertà delle campagne, la non libertà di culto. Sicuramente, sarà tutto vero, ci sarà ancora molto da conquistare. Ma si arriverà anche a questi traguardi, ne sono certa.

Come possiamo noi europei, incapaci di sopprimere la povertà nei nostri paesi grandi quanto una provincia cinese, pontificare su una realtà che, come dice una frase famosa, si crede di conoscere dopo un mese, si pensa di dover approfondire dopo un anno, e dopo dieci anni si è certi di non aver capito molto?

Amo la Cina per questo potenziale di forza e di vigore, ammiro ciò che sta costruendo, e mi auguro che riesca a far vivere tutta la sua popolazione con la dignità che merita.


domenica 28 gennaio 2007

Andy Warhol

L’arte della ripetizione *

All’età di otto anni Andy era un bel bambino dall’aria paffutella, la fronte alta, i capelli biondi separati da un lato, gli occhi lunghi, scuri, penetranti, ironici.

Sua madre, una donna dal seno provocante, gli occhi e le labbra molto accentuate dal trucco, i capelli biondi arricciati dai bigodini, se lo portava dietro dovunque, anche quando incontrava uomini sconosciuti o quando faceva le pulizie in un grande magazzino.

Andy l’adorava, la seguiva ubbidiente, non protestava quando rimaneva, senza sapere perché, delle ore seduto su una sedia ad aspettare che sua madre uscisse da una stanza, sempre diversa, con un signore, sempre diverso. Faceva l’infermiera, gli aveva detto, e andava a curare i pazienti in casa. Andy aspettava, dopo, una macchinina in premio, o un album per disegnare o un pacchetto di quelle cicche alla fragola che tanto gli piacevano. Quando la mamma faceva le pulizie nel più grande magazzino di Pittsburgh, Andy si divertiva perché girava per gli scaffali pieni di barattoli, sacchetti, reggiseni, dolci. Qualche volta li toccava anche, senza farli cadere però, come raccomandava la mamma.

«Andy dove sei?» La voce superava il ronzio dell’aspirapolvere.

«Dove sono i rossetti.»

«Non toccare, altrimenti non posso più portarti. Non vuoi dispiacermi, vero?»

«No, mamma, no.»

E così, un giorno dopo l’altro, nelle ore fuori dalla scuola.

A scuola Andy aveva un amichetto dagli occhi azzurrissimi: Glenn. Era la prima cosa che Andy aveva notato. Glenn aveva un anno più di lui, era più alto e robusto e molto gentile. Quando Andy gli regalava i suoi disegni - perché Andy sapeva disegnare molto bene - li collezionava in una cartellina rossa che teneva sotto il banco.

Fu proprio un disegno di Andy che attirò l’attenzione del preside della scuola. Una mattina lo convocò nel suo ufficio e gli propose di partecipare a una piccola mostra interna.

Poi lo accarezzò lungamente.

A quindici anni Andy era un ragazzo non molto alto, magro, pieno di brufoli che disturbavano gli occhi scuri e lunghi dall’aria pensosa.

A scuola non c’era più Glenn, andato in collegio due anni prima, e non c’era più nemmeno il preside, sostituito da una grassa signora affabile.

Andy, ormai da qualche anno, non accompagnava più sua madre. Rimaneva ad aspettarla in casa e spesso la vedeva tornare stanca e inquieta.

«Non hai l’aria felice, mamma» le disse una sera che rientrò con il vestito in disordine e il trucco sgualcito.

Lei si mise a piangere a dirotto, andò a cambiarsi e disse:

«Mi passerà. Mangia intanto, non vorrai farmi dispiacere, vero?»

«No, mamma, no.» E si rimise a disegnare.

Andy amava soprattutto disegnare, fare ritratti, usare i colori. Aveva fatto e rifatto il ritratto di Glenn con gli occhi azzurrissimi, e quello della madre con il trucco pesante.

A venti anni Andy era non molto alto, magro, gli occhi lunghi e scuri e senza allegria. Sua madre era morta di un tumore all’ utero in pochi mesi. Prima di spirare gli aveva detto:

«Sii saggio, Andy, non vorrai darmi un dispiacere, vero?»

«No, mamma, no.»

E scappò da Pittsburgh.

Andò a New York con le sue poche cose e la voglia di disegnare.

Capitò da Glamour, la famosa rivista, che cercava giovani di talento. Il direttore fu gentile, lo trattenne a lungo nello studio, così come aveva fatto il preside.

Andy fu assunto.

Cominciò la sua clamorosa ascesa nel mondo della pubblicità. Si ricordò degli occhi azzurrissimi di Glenn, dei colori forti che usava sua madre, dei barattoli accatastati sugli scaffali del grande magazzino di Pittsburgh e cominciò a creare, a creare senza sosta, cartelloni, manifesti, copertine.

Conobbe un fotografo, Andrew. Spesso lo chiamava nel suo studio per farlo assistere alle sedute di posa. Spesso rimaneva a lungo con lui. Dopo ogni incontro la creatività esplodeva e Andy ideava spinto dal furore del rapporto appena avuto. Presto ne sentì sempre di più il bisogno.

A quaranta anni Andy era non molto alto, magro, gli occhi lunghi e tristi in un viso che cominciava a cedere.

Giaceva nel letto di un ospedale di New York gravemente ferito da una donna, fondatrice e unico membro della Società per fare a pezzi gli uomini, che si era introdotta nel suo studio e gli aveva scaricato una pistola addosso.

Si era salvato, ma nei due mesi d’ospedale aveva visto e rivisto la sua vita come in una ripetizione dei suoi quadri.

Ne aveva fatte di cose in quegli anni. Forse troppe se faceva un bilancio attento attraverso la collezione di fatture, biglietti aerei, cartoline, piantine di città, foto di gente che aveva alimentato la fama della sia Factory.

Già, la Factory. Un’ idea che gli era venuta dal suo essere soprattutto un pubblicitario, un creativo, un solitario creativo. Aveva accettato tutti in quella che poteva sembrare una multinazionale: barboni e aristocratici, puttane e travestiti, artisti e criminali.

La Factory fu la sua trovata più geniale. Più dei barattoli di Campbells o dei Martison Coffee o delle bottiglie di Coca cola. Di quelli la gente, dopo la prima sorpresa, non si sarebbe più stupita, ma della Factory, sì. Ognuno si era ritrovato, là dentro, ognuno aveva soddisfatto i suoi segreti desideri, abbandonandosi senza inibizioni a quell’ambiente accogliente e provocatorio.

Andy, mecenate e sfruttatore, regnava su tutti esibendo la sua omosessualità e le sue depravazioni, esponendosi come un prodotto da grande magazzino, più per alimentare continuamente il suo mito che per un autentico bisogno di mostrarsi.

Lui era rimasto solo, dentro, lui era rimasto quello che si accontentava delle cicche alla fragola. Il senso della Morte se lo portava addosso. Cos’era la sua pittura se non la rappresentazione del dissolvimento, di ciò che c’è e che scompare grazie al consumo, all’uso sconsiderato delle immagini e delle cose?

«Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere Morte.»

Ecco, lui era spinto da uno sfrenato bisogno di vedere gli altri umiliarsi e piegarsi e rivelarsi di fronte al ragazzino che aveva passato ore nelle stanzette squallide o nei corridoi deserti di un grande magazzino sporco.

A cinquantotto anni Andy era non molto alto, magro, gli occhi lunghi, seri dietro occhiali tondi e grandi. Il viso flaccido segnato da rughe cadenti ai lati della bocca. I capelli bianchi, pettinati come a otto anni, separati da un lato, a volte coperti da un parrucchino bianco, un po’ eccentrico e un po’ ridicolo.

Era famoso nel mondo. Uno dei geni artistici riconosciuti del ‘900. Ai suoi barattoli, le sue Marilyn, i suoi Mao Zedong, i suoi Elvys, i suoi fiori che facevano parte dei musei più importanti e delle collezioni più esclusive, si permise di aggiungere L’Ultima Cena dall’affresco di Leonardo.

Alla raccolta di scontrini e cartoline e biglietti aerei si erano aggiunti oggetti di tutti i tipi messi insieme, spudoratamente, nelle sale della Factory e nella sua stessa casa.

In un momento di presaga solitudine, Andy si fece fotografare truccato con i colori che usava sua madre: gli occhi ingranditi dagli ombretti, le sopracciglia marcate, il fard pesante, la bocca segnata da un rossetto scuro, i capelli nascosti da una parrucca biondo-mesciato.

Sotto quella foto, ingrandita a dismisura, incorniciata e issata su una delle pareti della sua camera da letto, lo trovarono morto il 22 febbraio 1987.

Triste, grottesco, tragico.

* Andy Warhol - 1928-1987

Milano, 30 luglio 2006

mercoledì 24 gennaio 2007

Guarigione dell'anima, accoglienza del cuore

Collaboro alla redazione del giornale Ascoltami. questo è un pezzo che verrà pubblicato nel prossimo numero


La voce dei familiari – n.18 La guarigione: l’accoglienza -

Guarigione dell’anima, accoglienza del cuore

«Non è stata violentata. Questa è stata la sua fortuna.»

Con tono calmo, semplice, Peter dice questa frase che, per noi donne contiene spavento e angoscia. È il tono, però, di chi ha ormai oggettivato una storia drammatica, e l’ha metabolizzata tanto da raccontarla a un altro come se raccontasse la trama di un romanzo.

L’ “altro”, in questo caso, sono io seduta accanto a questo bianco americano di quarant’anni, in un aereo che da Francoforte ci trasporta a Portland in Oregon. Peter è un ingegnere agronomo. Torna a casa, dopo due settimane, da sua moglie Beatrice, e dalla loro bambina, Alicia.

Come succede spesso in un lungo viaggio, abbiamo cominciato a chiacchierare per banalità. Lui, forse incoraggiato dai miei capelli bianchi, si è raccontato, dapprima in modo superficiale, poi su cose personali, e alla fine si è abbandonato a quella confidenza che interviene tra sconosciuti perché pensare di non rivedersi mai più rassicura e si può dare sfogo, ad alta voce, ai propri pensieri.

«Forse avrà seguito le vicende del Ruanda» mi dice Peter dopo un lungo silenzio.

«Sì, certo» gli rispondo sicura «ho visto un bello spettacolo teatrale.»

«Saprà del genocidio del 1994, della ferocia con cui le comunità etniche si sono affrontate. Mia moglie è ruandese. Ha vissuto in quell’inferno e si è salvata per miracolo.»

Avevamo già detto tutto su Portland, la piacevolezza di viverci, la serenità della sua famiglia, la gioia di aver una bambina quando non ci contava più.

Di fronte a quella confidenza realizzo la mia grossolana ignoranza e mi sento in colpa guardando quell’uomo piacevole, dal viso aperto, quasi familiare tanto è tipicamente americano.

Lascio perdere la sonnolenza che mi dà la xamamina, lascio andare le considerazioni superficiali che si fanno in situazioni del genere, e capisco di trovarmi di fronte a un uomo di qualità. Devo dargli molta attenzione se non voglio offenderlo.

«Mi dispiace. Una esperienza dolorosa.» Dico con molta partecipazione. «Come vi siete conosciuti?»

«Io lavoravo da un anno in Ruanda e lei lavorava per una società olandese con cui avevo contatti di lavoro. Un incontro solo amichevole. Quando sono partito le ho scritto fino a quando ho saputo che lavorava in Olanda. Mi ha stupito che avesse abbandonato Paese e famiglia, ma ho pensato a una opportunità di lavoro.

Non sapevo, invece, che fosse stata costretta a scappare e che la società per la quale lavorava l’avesse aiutata a mettersi in salvo. Non sapevo che fosse stata picchiata, torturata, braccata. Non sapevo che l’avessero portata via alla famiglia per ucciderla. Non sapevo nulla, pur conoscendo bene le tensioni del Paese. Beatrice, allora, aveva venticinque anni ed era molto bella.

Desiderando fortemente rivederla, l’ho raggiunta in Olanda: una donna trasformata dalla paura, dall’angoscia, dallo sradicamento.

Ho capito, guardandola, cosa possa essere la sofferenza portata all’estremo limite. Le atrocità vissute, dette con pudore e abbandono insieme, mi hanno rivelato il suo animo, la sua sensibilità. Sapevo già di essermi innamorato di lei, fin dal Ruanda, ma in quel momento l’ho amata con un trasporto che non avrei immaginato. Le ho chiesto di sposarmi e di venire in America con me. Quattro anni fa è nata Alicia.»

Ero così commossa da questa storia da desiderare di conoscere Beatrice. Forse non faceva parte del rituale delle conoscenze occasionali e forse, di fronte a questa richiesta, Peter poteva sentirsi a disagio. Ma lui, leggendomi nel cuore, mi ha detto: «Beatrice e Alicia mi aspettano in aeroporto. Le fa piacere conoscerle?»

Gli ho risposto di sì con la testa mormorando: «Grazie».

Una volta atterrati e sbrigate le pratiche di controllo ci siamo avviati insieme all’uscita.

Quando ho visto una donna di colore, alta, dai lineamenti delicati, elegante nel vestito etnico, con in braccio una piccolina dai capelli neri e ricci, ho riconosciuto Beatrice e Alicia.

Erano al sicuro, erano sane, erano serene.


Mi, 11.10.2006

domenica 21 gennaio 2007

Marai incontra Marai - commento

Màrai incontra Màrai

Dopo essere stata affascinata dalla lettura de Le Braci (1942), sto leggendo a ritroso gli altri libri di Sàndor Màrai pubblicati dall’editore Adelphi.

Questo ordine di lettura riporta alle radici dei personaggi e si presta a considerazioni di grande interesse. Oserei dire che permette di scoprire alcune delle ossessioni e forse le sofferenze dell’uomo Màrai.

L’Amore, con l’A maiuscola, sembra, a una prima lettura, il grande tema delle sue storie. Amore inteso come passione eterna, “pienezza della vita” tra uomo e donna; amore inteso come grande rapporto di amicizia e di lealtà fra uomini. E solo tra uomini: l’amicizia fra un uomo e una donna non è considerata. La donna è il mezzo d’amore.

In realtà l’amore è il pretesto per sollevare un velo sulle ambiguità, sulle rivalità, sugli odi, sulle passioni più segrete che abitano in ciascuno di noi e che ciascuno di noi esercita sotto l’egida dell’amore. Sono spietati i personaggi a cui Màrai affida questo compito, sono spesso laidi (il Casanova de La Recita di Bolzano e l’attore de I Ribelli), sì che il lettore riconosca il vero e il falso, l’innocente e il perverso, la vittima e il carnefice. Ma poi, quando tutto sembra comprensibile, si insinua un punto interrogativo: è veramente tutto così chiaro? E il lettore entra da protagonista a sciogliere l’enigma.

Per semplicità analizzo gli elementi che collegano le storie e le intrecciano in modo inconfondibile.

Le donne

Il rapporto di Marài con le donne, anzi con la Donna, deve essere stato molto sofferto se lo scrittore ha sentito il bisogno di farne un oggetto conteso. I due soli personaggi femminili che vivono un ruolo attivo, sono Eszter, ne L’ereditàEszter (1939), e Francesca, ne La recita di Bolzano (1940).

La prima, Eszetr, è una donna passiva, rassegnata: un amore vissuto vent’anni prima le ha lasciato ferite inguaribili. Vittima ancora del suo dominio non riesce a liberarsi dalle prepotenze dell’uomo che l’ha illusa: “gli amori infelici non finiscono mai.”

La seconda, Francesca, pur amando ancora un Casanova invecchiato, pingue e povero, senza più alcuna attrattiva, sente la debolezza di un grande ricordo d’amore, ma sente anche la forza che le viene dalla coscienza di un tempo ormai passato.

Francesca è lucida e questa lucidità le permette di controllare le passioni. E pur confessando - a un Casanova vendutosi vigliaccamente al conte, marito di lei - un amore che non si esaurirà mai, lo abbandona lasciandolo nello squallore della sua realtà, nel freddo di una stanza in cui il fuoco si è spento da tempo. “Per indicarci che un giorno tutte le passioni diverranno cenere.”

E’ l’unica donna, raccontata da Màrai, che per una lunga notte parla e domina, con le sue argomentazioni appassionate sull’amore, la bellezza, la vita, la morte, il destino, un uomo che non osa rispondere perché ha siglato un patto di tradimento: “Non è servito a nulla che io ti abbia offerto la voluttà e la pace, la purezza e la rigenerazione?” Ma lui tace.

Le altre donne, pur protagoniste assolute delle vicende narrate, non vivono nel romanzo se non come fantasmi evocati dagli uomini che le hanno amate e che continuano a consumare la loro esistenza nel ricordo di quell’amore perduto.

Krisztina è la donna amata ne Le Braci. Nobile, misteriosa e traditrice, emerge e se ne parla quando, morta da anni, i due uomini che l’hanno posseduta si rincontrano ormai vecchi ma ancora bisognosi di chiarire quel tradimento. Il loro incontro, in un colloquio, che occupa praticamente tutto il libro, mette a nudo quanto quel tradimento sia rimasto una profonda ferita per il marito, il generale, e quanto invece sia stato per Konrad, l’amico esclusivo fin dai tempi del collegio, un modo per azzerare le differenze sociali (che inconsciamente si è portato addosso con grande fatica), e di rivalersi di quell’amicizia così profonda e generosa che non ha mai potuto ricambiare alla pari. Le sue condizioni sociali ed economiche non glielo hanno permesso e quel peso non lo ha mai abbandonato. Tradire l’amico, facendosi amare dalla moglie, è l’atto spregevole ma liberatorio che permette a Konrad di fuggire per ricostruire la sua vita lontano, libero dai confronti, libero dai rimorsi.

Un’altra donna, Anna, nel Divorzio a Buda, (1935) vive da morta nella lunga requisitoria con cui Imre, un medico di mezza età, inchioda per tutta una notte Kristof, il giudice. Quel giudice che il giorno dopo avrebbe dovuto pronunciare il loro divorzio. Ma Imre non può rompere il suo rapporto con Anna se non attraverso la morte. E infatti la provoca e va a confessarlo a Kristof ricostruendo, come in un sogno, una ipotetica attrazione che lo stesso Kristof avrebbe nutrito per Anna tanti anni prima facendo di Anna, a sua insaputa, una donna contesa.

Il personaggio di Kristof potrebbe essere il generale de “Le Braci da giovane: nobile, perfetto, con la responsabilità di grandi tradizioni; come il personaggio di Imre potrebbe essere un precursore di Konrad: origini molto modeste vissute, come una sorta di frustrazione, nei confronti del ceto nobile, mentre Anna anticipa Krisztina, immensamente amata e perduta. Divorzio a Buda sembra il canovaccio, poi maturato e perfezionato, del capolavoro: Le Braci.

Le differenze sociali

Oltre che ne Le Braci, sfumato dall’amicizia apparente e da sentimenti mai espressi e mai affrontati lealmente, e nel Divorzio a Buda, quello della differenza di casta è un altro tema che Màrai tiene a mettere in evidenza nei suoi libri.

Emerge molto bene ne I Ribelli (1930).

Un gruppo di giovani, accomunati dall’appartenenza alla stessa scuola, dall’idea di rifiutare la realtà che vivono in una piccola cittadina - sconvolta dalla prima guerra mondiale – decidono di formare una “banda” per agire e comportarsi fuori dalle norme imposte dalla loro educazione e dal loro ambiente. Tutti si sentono affratellati da questa condivisione segreta, non avvertono alcuna differenza tra loro. Da Abel, figlio del medico facoltoso, che sente ”gli effluvi acri e penetranti dell’etere e della tintura di iodio che filtravano dall’armadietto dei medicinali”, a Bèla, figlio del salumiere, “intorno quale fluttuava un aroma di spezie orientali, di aringhe, e di frutta fresca”, a Erno, figlio del calzolaio, “che odorava di colla e di pellame al grezzo,” a Tibor, figlio di un colonnello in guerra, con una madre molto malata, nella cui casa “regnava un odore di povertà e di malattia intriso di lavanda.”

“I mestieri dei padri impregnano le loro abitazioni di odori inconfondibili.” Dice Marài all’inizio del romanzo per avvertire il lettore che le differenze tra la “banda” ci sono e gli odori ne sono una inconfutabile traccia.

Complici nella guerra – parallela a quella dei loro padri - che combattono contro la società; compatti nei giochi che inventano e sviluppano, finiscono col non vedere più, nella loro innocenza, il confine tra la realtà e il gioco. Non ne conoscono i rischi e vanno verso una tragedia imprevista quando scoprono che Erno, il figlio del calzolaio, li ha traditi denunciando i loro giochi segreti. E qui esplode, in tutto il suo tragico livore, il conflitto di classe, mai sopito e mai sopportato. Erno risponde alle accuse dei compagni: “Le migliaia di volte, ogni santo giorno, che mi avete preso a calci in un modo o nell’altro? No, non era colpa vostra. Non è mai colpa di nessuno. Voi eravate il tatto e la bontà in persona. Io odiavo il tuo tatto. Detestavo la tua bontà. Ti odiavo quando maneggiavi il coltello o la forchetta. Quando salutavi qualcuno. Quando sorridevi. Quando ringraziavi per qualcosa, per un oggetto o per un’informazione…Odiavo i tuoi gesti, il tuo sguardo, il modo in cui ti alzavi e ti sedevi. Non è vero che queste cose si possono imparare. Ho capito che non c’è denaro, potere, forza, conoscenza che possa compensare tutto ciò. Che potrò campare cent’anni e diventare milionario, e quando voi marcirete già da tempo nella cripta – perché voi altri anche da morti ve ne starete in un palazzo tutto vostro, non come noi cani, che ce ne stiamo in cantina già da vivi -,anche allora mi sentirò infelice perché mi verrà in mente il modo in cui Tibor sapeva chiedere scusa a un passante, che aveva involontariamente urtato, con un gesto della mano e un sorriso…Io non so come ci si possa purificare, ma mi sento più pulito al solo pensiero di voi tutti immersi nel fango fino al collo. E alla fine voi creperete.”

L’odio covato e finalmente confessato, provoca il suicidio di Erno che non riesce a sopravvivere ai suoi stessi sentimenti.

La rappresentazione

La recita, la maschera, sono un altro dei temi amati da Màrai, anzi, come accennato prima, forse il tema più amato. Trattato nel modo psicologicamente più profondo si può dire che è presente, in un modo o in un altro, in ognuno dei suoi libri. Ogni personaggio sembra abbia una maschera, ogni personaggio sembra appartenere a una sceneggiatura precisa e sofisticata.

Naturalmente ne La recita di Bolzano diventa fondamentale nell’incontro fra Casanova e Francesca. Per tutta una notte si confrontano, si confessano, parlano di amore assoluto, vestiti in maschera e con il volto coperto: lei in abiti maschili e lui in abiti femminili. I ruoli scambiati, realtà e finzione, travestimento dei destini.

Màrai fa dire a Francesca: “E sei fuggito invano, perché adesso siamo di nuovo qui, l’uno di fronte all’altro, e aspettiamo il momento in cui potremo toglierci la maschera, amore mio: ci sono ancora tante, tante maschere tra noi, e dovremo togliercele una dopo l’altra prima di vederci finalmente a viso scoperto. Non avere fretta, non ti agitare, non allungare la mano verso la maschera, non gettarla ancora! Non è un caso che oggi, dopo tanto tempo, ci ritroviamo con la maschera sul volto, quando ciascuno di noi si è liberato dalla sua prigione e siamo qui, l’uno di fronte all’altro; non affrettarti a gettare la maschera, perché sotto ne troveresti un’altra, fatta di ossa, di carne e di pelle, che tuttavia è una maschera proprio come quella di seta. Dovremo gettare molte altre maschere prima che io possa vedere e conoscere il tuo volto. Ma so che da qualche parte, lontano, molto lontano, esiste anche un tuo volto diverso, ed è quello che un giorno devo vedere; perché ti amo.”

E tutto ciò che si dichiarano a cosa appartiene? Alla recita o alla vita? Al fascino della finzione o alla sofferenza della realtà e dell’abbandono?

Màrai lascia al lettore tutte le riflessioni sulla verità.

Ne I Ribelli diventa fatale l’incontro tra la “banda” e un ambiguo attore fallito che li affascina con le sue trasformazioni, conquista la loro fiducia, entra nei loro giochi fornendo costumi di scena, li fa credere liberi “dai tentacoli di quella disciplina che li aveva oppressi nella loro infanzia.” Si serve della loro ingenuità e della loro paura per i suoi loschi affari. “Ma l’attore aveva delle capacità di cui nessun altro era dotato.”…”Riusciva a parlare con loro come nessun adulto era mai stato capace di fare.”… “L’attore recitava, spinto dalla stessa necessità che costringeva anche loro a recitare, deformando la realtà dietro le smorfie dolorose di un personaggio, di una maschera. Per lui interpretare una parte era un’esigenza, così come per essi era una legge. Può darsi che l’attore sperimentasse i movimenti più autentici della sua vita solo mentre stava in scena; così come i ragazzi avevano la sensazione che la loro vita dietro lo schermo del reale fosse più autentica di ogni realtà."

Ed è lui, l’attore, il personaggio in maschera, che li porta cinicamente alla tragedia.

Ne Le confessioni di un borghese (1934), autobiografia dello scrittore, si ritrovano le radici dei suoi romanzi. E’ il libro chiave per capire l’opera di Màrai.

Si capiscono i passaggi importanti della sua vita, e, come nei suoi libri, le donne lo accompagnano ma non si vedono. Non si sa molto di loro, neppure se lui le ama: un velo di pudore le protegge dalla curiosità del lettore.

Indimenticabili le pagine dedicate alla Berlino e alla Parigi del tempo. Splendide città viste e vissute da un giovane giornalista straniero in cerca di affermazione.

Ultimo libro pubblicato Terra,terra (1969), completa l’autobiografia raccontando non più le ambiziose peregrinazioni di un giovane borghese ma le sofferenze di un borghese durante l’occupazione di Budapest da parte dei nazisti, prima, dei comunisti, poi. Nelle pagine che parlano dell’umiliazione della città amata, si sente il borghese ferito nel suo orgoglio che, in fondo, non si domanda cosa viva chi non appartiene al suo ceto sociale, ma soffre per ciò di cui lui, il borghese, l’intellettuale, viene privato. “La crudeltà burocratica, meccanizzata e impersonale è umiliante per l’uomo, mentre quella individuale si accontenta di causare tormenti.E adesso, ancora in uniforme, la crudeltà era ricomparsa a Budapest.”

L’interesse di questo libro, appassionato e dolente, è, inoltre, di farci sentire Màrai non più come un grande scrittore appartenuto alla Mittleuropa, ma uno scrittore vicino, contemporaneo, appartenuto alla nostra storia.

Sì, Sàndor Màrai nei suoi romanzi ci fa riflettere sull’amore, ma ci propone una riflessione ancora più profonda sulla verità e la finzione che appartengono, nello stesso modo, alla nostra vita.

3 settembre 2002